Non ha senso parlare di Sicilia e di cultura siciliana ove non si parli anche di identità. Anzi, l’identità è l’essenza, l’antefatto e l’archetipo per qualsivoglia discorso che miri a prendere in considerazione la nostra Isola sotto i profili più svariati.
Chiunque non riconosca se stesso è destinato a vagabondare senza meta e senza una direzione. Allo stesso modo, una terra in cui non vi sia consapevolezza della propria natura essenziale è destinata a diventare facile preda di avventurieri senza scrupoli, che per inseguire il proprio tornaconto la snaturano e la depredano a ripetizione.
La Sicilia, non soltanto non fa eccezione, ma (tralasciando il saccheggio post-unitario attuato dal 1860 in poi) nell’ultimo scorcio del Novecento – in particolare dal secondo dopoguerra – è stata trattata come terra di conquista e di “sfogo” per politiche nazionali il cui esito, a lungo andare, si è rivelato fallimentare. L’industrializzazione forzata di intere porzioni di territorio dalla vocazione naturalistica ha ridotto luoghi di rara bellezza in bacini di scolo per fabbriche deturpanti e le genti di intere vallate soggetti ad alto rischio tumorale. Termini Imerese, Priolo, Augusta, Gela, Milazzo (per citarne alcuni) soffrono per l’incertezza di pensare a un futuro possibile, dopo che per decenni sono state utilizzate per interessi extrasiciliani per poi essere gettate nel cestino dei rifiuti senza troppi complimenti, ma con qualche ringraziamento di circostanza dal gusto beffardo.
Ripartire dall’identità è necessario ma è anche inevitabile, perché questa è l’unica possibilità che la Sicilia ha per rialzare la testa e pensare a un futuro concreto, in cui la cultura non sia solo vetrina. Si tratta, infatti, di un processo che investe naturalmente tutti i settori che possono garantire alla nostra terra uno sviluppo duraturo e consapevole.
Di che si tratta è presto detto: identità vuol dire mettere insieme beni culturali e archeologici, cultura teatrale e musicale, agricoltura, vini, ristorazione, mare, turismo, sotto un unico comune denominatore: la Sicilia, appunto.
Sembra una banalità, una scoperta dell’acqua calda, ma se pensiamo che nell’ultimo settantennio ha trionfato la logica dell’ognuno per sé e Dio per tutti, ovvero, quella dei compartimenti stagni non dialoganti fra loro, ci si accorge che in realtà si tratta di un’arma formidabile e autenticamente rivoluzionaria, proprio perché mai sperimentata in questa forma: la Sicilia quale identità da offrire al mondo. La Sicilia quale identità da imporre alla politica regionale e nazionale, affinché le scelte strategiche nel medio e nel lungo periodo sino tutte protese a realizzare questo obiettivo.
L’identità Sicilia è, perciò, un brand naturale nel quale a parlare è la nostra “specialità” in quanto, al contempo, isola (con tutto ciò che questo comporta) e più grande regione italiana: una regione eterogenea, un cosmo di possibilità che si offrono davanti ai nostri occhi.
Un universo, quello siciliano, che non a caso è rappresentato unitariamente dalla Trinacria, simbolo nel quale le tre gambe, i tre assi portanti, pur indicando apparentemente luoghi differenti, vanno in un’unica direzione e ruotano attorno a un unico centro. Ed è questo centro l’essenza stessa della Sicilia, che può e deve muovere una nuova politica che guardi alla nostra terra in modo diverso, perché attento osservatore.
È finito (fortunatamente) il tempo dell’assistenzialismo a pioggia che garantiva molti a scapito dello sviluppo ed è stata seppellita, soffocata dalla sua stessa ingordigia, l’era delle soluzioni clientelari bipartisan, grazie alle quali la Regione siciliana è stata considerata alla stregua di un bancomat da scassinare e svuotare.
Occorre costruire un tempo tutto nostro, in cui l’identità non sia più una bandiera da sventolare strumentalmente di tanto in tanto nel nome di un’ipocrita “autonomia” barattabile al migliore offerente, ma il segno distintivo della nuova politica. Una politica giovane e bella, che comprenda e incarni questa grande sfida.