Qual è il titolo di questo articolo? O meglio qual è la ragione di questo titolo così paradossale? La risposta alla domanda “Qual è il titolo di questo articolo” è la stessa domanda che coincide con la sua risposta, cioè “Qual è il titolo di questo articolo?”. Non si tratta di un gioco semplicemente linguistico.
Molti anni fa, un giorno mi recai nella biblioteca della mia città per prendere in prestito un libro di paradossi logici e linguistici dal titolo estremamente paradossale autoreferenziale vale a dire “Qual è il titolo di questo libro?”. Presi il modulo e, nello spazio apposito in cui bisogna scrivere il titolo del testo che si desidera consultare, scrissi il titolo del libro in questione, cioè: “Qual è il titolo di questo libro?”. Una impiegata si mise a ridere perché credeva che fossi così stupido da chiedere a lei quale fosse il titolo del libro mentre l’altra si arrabbiò perché pensò che la stessi prendendo in giro: urlò che non aveva voglia di giocare e mi richiese quale fosse il titolo vero del libro. Con molta innocenza risposi “Qual è il titolo di questo libro?” Avevo detto la verità ma fui processato. .
L’impossibilità di meta comunicare produce aggressività
Passò del tempo prima che riuscissimo ad intenderci: o ero uno stupido oppure un buffone. Non avevo alternative. In realtà il mio errore, come mi fu chiaro dalla stessa lettura successiva del libro, ero stato quello di non usare le virgolette per distinguere l’aspetto denotativo del messaggio da quello connotativo, anche se, detto in tutta onestà, non credo che questa finezza tecnica avrebbe consentito alla impiegata regionale di comprendere al volo il senso del gioco che consisteva nella confusione, creata volutamente dall’autore, tra linguaggio e metalinguaggio. In ogni caso non appena fu chiarito l’equivoco la tensione si sciolse in una fragorosa risata, un atto metacomunicativo particolarmente liberatorio, che cambiò improvvisamente atmosfera la situazione di accadimento e tensione reciproca. Quando ci è preclusa la possibilità di comunicare sul modo in cui comunichiamo, quando, ad esempio, scattano le fazioni, fiorisce la aggressività perché questo spazio metacomunicativo viene distrutto dal modo in cui impostiamo il dialogo.
E i social?
Possiamo, senza dubbio di smentita, affermare che il dialogo nei social forum impedisce questo atto particolarmente liberatorio e metacomunicativo che consiste in una risata comprensiva. Vedo ovunque una comunicazione schizoide e aggressiva in cui, a causa della incompletezza dei dati e dei parametri comunicativi, si ride di un dramma o ci si offende per una battuta. La comunicazione risulta parziale e produce schizoidia perché è basata soltanto sulla comunicazione scritta e mancano tutti i parametri della comunicazione non verbale come il tono, l’inflessione della voce, la mimica facciale, la postura, il silenzio tra le parole, lo sguardo. Manca tutto ciò che completa la comunicazione e consente la capacità semantico pragmatica dell’interlocutore di cogliere il senso del messaggio nella sua complessità e contestualità.
La difficoltà di comunicazione semantico pragmatica
La comprensione di un messaggio non presuppone soltanto la decodifica di ciò che è stato enunciato ma soprattutto importa un’abilità di fare inferenze contestuali adeguate ovvero di cogliere quella che è l’intenzione del parlante. La decodifica integrale di un messaggio si manifesta grazie alla presenza di un corpo che si apre e si relaziona ad altri corpi all’interno di un contesto dove altri parlanti dicono, sotto intendono, alludono, stravolgono il senso di quello che di quello che dicono, ad esempio, attraverso un sorriso. A mio avviso perdiamo la capacità e l’allenamento alla competenza di integrare tutte le informazioni verbali, non verbali e contestuali all’interno del dialogo. Perdiamo la capacità di fare inferenze mirate e adeguate; piuttosto tendiamo a interpretare, cioè, a fare delle deduzioni che sono frutto di una elaborazione personale e dietrologica e che non si basano sui parametri che l’altro con il suo corpo veicola. Elaboriamo inferenze che interpretano l’intenzione dell’altro poiché manca una parte del messaggio importantissima, quella veicolata dal corpo parlante e presente.
La mia convinzione è che questo tipo di comunicazione sviluppi quello che nei bambini si chiama disturbo semantico pragmatico e negli adulti una difficoltà, una perdita della capacità, della finezza, di cogliere tutte le sfumature di un messaggio integrato in un contesto. Diventiamo più stupidi.
L’ostacolo è la leva
La difficoltà sono una opportunità evolutiva. Ciò che costituisce la difficoltà potrebbe diventare uno stimolo evolutivo e un gioco divertente qualora si possedesse l’intenzione costruttiva e positiva di non essere sospettosi nei confronti dell’altro. Occorrerebbe decentrarsi e, invece di vedere tutto sempre in riferimento a ciò che io sono e so, bisognerebbe, ogni tanto, non cadere in questa imbecillità egocentrica: piuttosto imparare a vivere il paradosso di una comunicazione della non comunicazione, di trovare un accordo nel disaccordo e una comprensione più profonda e flessibile nella non comprensione.
Il paradosso artistico e stimolante nasce come nel cinema di Kubrick o di Tarantino oppure nella pittura di Magritte o nelle litografie di Escher quando l’attività percettiva entra in contrasto con informazione narrativa, quando il discorso che dice le cose entra in contrasto con il discorso che le cose dicono; il gioco si crea quando la rappresentazione entra in contrasto con i mezzi della rappresentazione, quando l’aspetto iconico e la dimensione fotografica nel caso del cinema entra in contrasto con l’aspetto diegetico del film che consiste nel racconto della storia, nella sua enunciazione di significato, nella informazione contenuta nel messaggio; ad esempio la serietà di una storia entra in contrasto con il modo allegro e divertito con cui essa viene raccontata oppure al contrario l’allegria di una situazione con il tono serio e drammatico sì che la reazione è lo stupore oppure il fastidio: una mucca che pascola nella camera da letto come nel film surrealista di Bunuel “ l’Age dor” crea spaesamento; quando la comunicazione verbale entra in contrasto con quella non verbale può essere divertente oppure distruttivo.
E quindi?
La comunicazione diventa disfunzionale quando il contrasto, invece di essere assunto come un gioco ed una sfida creativa, come una opportunità di evoluzione creativa della comunicazione, diventa occasione di adesione e ripetizione di una appartenenza che produce contrapposizione tra fazioni. Personalmente comprendo che il bisogno di appartenenza possa essere una esigenza psicologica vitale da rispettare ma non condivido che su di esso si debba basare e risolvere la comunicazione. Il bisogno di appartenere, l’ossessione di difendere una identità contro quella dell’altro, rivela solo una crisi profonda di identità. Chi possiede una identità felice, o comunque ha una creativa ricerca di essa, si apre al dialogo con quella degli altri senza insistere su questa ossessione di dimostrare la verità della propria. Il focus della nostra attenzione allora dovrebbe diventare la condivisone di idee che consentono di costruire insieme, e dal basso, una nuova territorialità culturale: occorrerebbe spezzare i luoghi comuni che, da una parte e dalla altra, impediscono di vedere insieme un’altra strada.
I luoghi comuni sono trappole cognitive
Bisognerebbe smascherare quelle che un filosofo chiama le “opposizioni antitetico polari”, ovvero le false opposizioni che rivelano un medesimo contenuto ben nascosto dietro le quinte. Io credo che dietro ogni forma di bipolarismo vi sia un medesimo contenuto che appare strategicamente opposto sul palcoscenico del teatro. Il bipolarismo (sia quello vecchio tra centro destra e centro sinistra che quello nuovo tra poteri forti e populismo) è un gioco gestito ed imposto, attraverso questa gigantesca alienazione del linguaggio e manipolazione delle parole (le parole non sono più un ponte ma un muro divisivo); è un gioco gestito proprio da chi, dietro le quinte, si arricchisce e si nasconde e costruisce il suo potere grazie ai conflitti tra i poveri e le vittime impotenti del sistema favorito da questa manipolazione alienante della comunicazione.
Io sono io
C’è il bisogno, da tutte le parti, di definire e disegnare una immagine negativa e troglodita dell’avversario per coprire l’esaurimento e la povertà della propria identità culturale. L’altro sarà sempre la peggiore incarnazione delle nostre paure inconsce ed io sarò sempre, di conseguenza, l’incarnazione e la esibizione di tutte le belle qualità opposte. L’altro nei social è il rovescio onirico delle nostre paure e anche dei desideri rimossi della nostra incerta identità. La critica, a mio avviso, deve essere indirizzata in primo luogo verso questo meccanismo psicologico primordiale che uccide il dialogo nella culla. Viviamo una crisi profonda della ragione come dialogo. Gli uomini si informano ma non comunicano e si è perso il senso profondo che la parola aveva sin dall’antichità. La parola perde la caratteristica di essere simbolo e diventa mero segno. La differenza tra spiegare ed informare, da un lato, e comprendersi, dall’altro lato, è abissale. Scrive un filosofo che avviene oggi “il trionfo della ragione informatica e della connessione sistemica e il fallimento della razionalità ermeneutica che è alla base del reciproco comprendersi.”
La soppressione del soggetto parlante, della storicità e della relazionalità umana rientra in un piano che è quello del trionfo dello scambio omeostatico e immediato delle informazioni. E’ il successo inequivocabile della razionalità scientista. Sembra quasi che possiamo fare a meno della ricchezza meravigliosa del linguaggio che crea il piacere della complicità relazionale e diventa solo funzione di scambio di informazione. Imprigionati in una massa di informazioni si è realizzata la morte del soggetto annunciata da Lacan e da Foucault: sulle ceneri di questo cadavere non è sorta tuttavia ancora alcuna comunità ma solo una massa disgregata di individualisti narcisisti e arrabbiati (di destra e di sinistra).
Il mondo non è aggirabile: non posso pormi all’ esterno del mondo in quanto individuo e pensare che il mio punto di vista sia la verità. Non vi è possibilità di imporre un significato ultimo. Il mio punto di vista è interno al mondo. La verità è il mondo comune: è la costruzione di una visione comune, una interazione a più voci, una dimensione plurale.
In ogni caso se la parola fallisce-scrive Hillman -ritorna l’odio verso ogni alterità e differenza e prevale l’autoreferenzialità del se stesso e la aggressività patologica
Insomma ho capito ma qual è il titolo di questo articolo?
Voglio una risposta definitiva e sintetica!
“Qual è il titolo di questo articolo?”
Non si risponde con una domanda con un’ altra domanda, idiota.