Alcuni chiarimenti sulla “tossicità” del precariato assunto come standard di impiego.
Cosa dice la legge
La Legge 10 dicembre 2014, n. 183, al suo art. 1 elenca, fra i principi e i criteri direttivi, quello di “promuovere, in coerenza con le indicazioni europee, il contratto a tempo indeterminato come forma comune di contratto di lavoro rendendolo più conveniente rispetto ad altri tipi di contratto in termini di oneri diretti ed indiretti”.
La stessa legge prevede, per i neoassunti, l’istituto delle “tutele crescenti”, tranne che per i dirigenti, i quali vengono esentati da tale forma contrattuale.
E, nel senso di favorire il ricorso al contratto a tempo indeterminato, gioca in modo esplicito il blocco degli istituti più utilizzati dal precariato, come le collaborazioni coordinate e continuative a partire del 1 gennaio 2016, il superamento del lavoro a progetto e dell’associazione in partecipazione con apporto di lavoro, la stabilizzazione dei collaboratori (co.co.co) e di persone titolari di partite Iva.
Dunque, come si giunge alla situazione attuale dove queste forme di precariato ancora risultano irrisolte nonostante la “ratio legis” che le definisce come fenomeno da esaurire?
Cui prodest la mancata risoluzione di questa anomalia che, a parere dello scrivente, ha devastato il mondo del lavoro italiano?
Per quanto questi principi possano essere estendibili a tutta la platea dei lavoratori, esistono degli ambiti nei quali il protrarsi ad libitum di queste fattispecie risulta, se possibile, ulteriormente deleterio, non solo per i lavoratori, ma anche per il tessuto sociale verso il quale la loro opera, nel senso di opus, è rivolta. La Sanità è uno di questi.
Il precariato nel comparto sanità
In Sanità le prestazioni sono scarsamente standardizzabili e ad alto tasso di discrezionalità. Ciò perché il grado di professionalità richiesto al personale è di livello e di specializzazione molto elevato, già a partire dai profili professionali più bassi, ai quali è richiesta una formazione e un’aggiornamento costante ed estremamente qualificante.
L’effetto che ha in tale ambito la natura di alcuni tipi di contratti atipici è veramente devastante.
Infatti, considerando che un lavoratore super specializzato acceda ad una Azienda sanitaria con un contratto a Partita Iva, gli eventi che si susseguono nel giro di pochi mesi sono i seguenti:
- presa in carico del lavoratore (professionista o meno) da parte della U.O.C. di competenza;
- istruzione sulle procedure di competenza della U.O.C. ed aggiornamento/formazione sulle tecnologie disponibili nel Servizio;
- tempo di affiancamento con i colleghi esperti e/o senior;
- utilizzo effettivo del lavoratore in totale indipendenza, facendo eccezione per l’istituto della reperibilità e della turnazione;
- fine contratto, rinnovo dello stesso o exit verso Azienda sanitaria che offre condizioni di lavoro migliori come tempo indeterminato o tempo determinato su posto in pianta organica vacante.
A questo punto, persa l’unità che con impiego di tempo e di risorse si era resa idonea al compito da svolgere con cadenza quotidiana, se esistono graduatorie utilizzabili, cosa non affatto scontata, si ritorna daccapo nel diagramma di flusso appena implementato o si lascia vacante per un periodo indefinito il posto in dotazione organica, aumentando il carico di lavoro e lo stress lavoro correlato di coloro che, comunque, devono far fronte ai livelli assistenziali determinati dalla legge.
Questo il punto di vista del giuslavorista e del lavoratore.
Di contro, l’utenza, a fronte di queste dinamiche che oramai riguardano quasi la metà del personale in servizio, che prestazione riceverà?
Che garanzia di qualità può avere da un sistema che propone continuamente personale in fase di formazione e che non può garantire quell’esperienza che è elemento necessario per fornire risposte adeguate ad una domanda di salute sempre crescente?
Volutamente non abbiamo considerato gli effetti psicologici e materiali derivanti da situazioni lavorative che non danno alcuna garanzia sul futuro dei lavoratori, ma basterà appena accennare all’impossibilità di contrarre un mutuo, di affrontare una gravidanza o una malattia da parte di cittadini che vengono considerati “liberi professionisti” a fronte di salari assimilabili a quelli dei lavoratori dipendenti di fascia più bassa.
Appare, inoltre, chiaro come questo meccanismo espone l’intero sistema al vulnus del demansionamento, percepito come fenomeno corrosivo verso l’autostima degli appartenenti ai diversi profili professionali.
Ed ancora, quale può’ essere l’apporto di questi lavoratori verso il già precario sistema pensionistico italiano e con quali prospettive per loro stessi, in mancanza di soluzioni contributive efficaci?
Quale prospettiva, allora, se la politica non corre ai ripari verso questi istituti che, nelle intenzioni dei giuslavoristi, avrebbero dovuto solo accompagnare ed introdurre i cittadini nel mondo del lavoro?
È evidente il fallimento e l’inadeguatezza di tali dinamiche, se non la perniciosità per l’intera società di queste forme di totale negazione del diritto al lavoro sul quale tanto la Repubblica Italiana aveva investito e speso nei primi decenni della propria vita.
Bisogna che la politica di livello imponga i necessari correttivi che non possono essere quelli relativi alle chimere della Legge Madia, che, per quanto utile a concludere determinate vicende, non disinnesca definitivamente queste forme di subdolo sfruttamento della parte più sana e maggiormente proiettata nel futuro della nostra nazione.