Il 31 gennaio si chiude ufficialmente la stagione venatoria 2018-19, anche se in molte regioni, grazie a deroghe che ne posticipano la chiusura, si continuerà a sparare fino al 10 febbraio. Ad oggi la conta delle vittime umane per questa stagione è di 12 morti e 50 feriti accertati, e non si tratta solo di cacciatori, ma anche di ignari passanti, anziani e bambini colpiti nella loro vita quotidiana, nell’intimità delle loro case.
Il costo umano della caccia
A Roma, un anziano che passeggiava tranquillo vicino casa sua è stato colpito a morte da un cacciatore che pensava di sparare ad un cinghiale nascosto dietro ad una siepe. Nelle Marche, un bambino di 9 anni è stato colpito al volto da un proiettile sparato da un cacciatore durante una battuta di caccia: è salvo, ma la prognosi funzionale è di 6 mesi. A Cesena, un altro bambino di 8 anni è stato colpito alla schiena mentre giocava nel giardino di casa. Nel riminese, un ciclista è stato colpito al volto mentre transitava su una pista ciclabile. A Faenza sono stati feriti tre raccoglitori di kiwi intenti al lavoro.
Questi sono solo alcuni degli episodi che si ripetono puntuali di anno in anno.
Sebbene quest’anno ci siano stati meno morti e feriti rispetto le 114 vittime della stagione venatoria 2017-18 (84 feriti e 30 morti), il problema della sicurezza legato all’attività venatoria non può essere ancora a lungo sottovalutato o addirittura ignorato. Esso infatti non riguarda solo i cacciatori, che diciamo sanno a quali pericoli vanno incontro, ma interessa tutti i cittadini che vivono nelle zone rurali e montane, e anche chi le frequenta per motivi turistici, sportivi, di lavoro o anche solo per fare delle passeggiate e raccogliere funghi. E di certo non possono vivere in uno stato di guerra, dovendosi guardare da un nemico che non vedono, che può ucciderli a distanza. Va affermato con chiarezza e senza indugi: la caccia è un pericolo pubblico.
I circa 570 mila cacciatori italiani, con una età media di 65-70 anni, da settembre a febbraio sono autorizzati a girare armati per campagne e boschi, 5 giorni la settimana (esclusi martedì e venerdì). Possono entrare anche nei terreni privati non recintati senza chiedere permesso ai proprietari (art. 482 c.c.).
Inoltre, mentre normalmente c’è un limite, per quanto ampio, al numero di armi che un civile con regolare nulla osta o porto d’armi può detenere per uso comune (sportivo, collezione, ecc.), non c’è invece alcun limite per la detenzione di armi a fini venatori. Non di rado si trovano veri e propri arsenali nelle case dei cacciatori.
Un hobby letale
Le armi da caccia, però, non sono giocattoli, ma hanno una potenza tale da essere in grado di uccidere un animale di grossa taglia, come un cinghiale, anche a distanza di centinaia di metri. Insomma, vere e proprie armi da guerra. Immaginate quali danni possono fare colpendo il viso di un bambino.
Le misure di sicurezza previste dalla Legge quadro sulla caccia n. 157/1992, come le distanze da abitazioni (100 m), strade e ferrovie (150 m), non sono evidentemente sufficienti a garantire l’incolumità dei cittadini, soprattutto in aree altamente frequentate da cacciatori, dove il rischio di essere colpiti da pallottole vaganti aumenta esponenzialmente.
Una situazione che, come segnalato da associazioni territoriali, rischia di disincentivare il turismo naturalistico, sportivo ed escursionistico, colpendo così le comunità anche sul piano economico.
Eppure, malgrado la evidente pericolosità pubblica dell’attività venatoria, e malgrado godano di una regolamentazione poco restrittiva, che gli permette di uccidere per divertimento circa 500 milioni di animali stimati ogni anno, le associazioni venatorie fanno pressione sulla politica e le amministrazioni locali perché vengano approvate leggi sempre più permissive. Cosicché si assiste ogni anno a decine di ricorsi da parte di associazioni animaliste e ambientaliste contro iniziative regionali in palese violazione delle leggi dello Stato e dei Regolamenti internazionali, che si concludo spesso con l’impugnativa dello Stato e la dichiarazione di incostituzionalità da parte della Corte Costituzionale.
L’impatto sull’ambiente
La caccia ha anche un grave impatto sull’ambiente e sulla biodiversità. L’attività venatoria è un fattore di disturbo dei normali cicli biologici della fauna selvatica, sia di quella cacciabile sia di quella non cacciabile e protetta. La pressione venatoria è molto invasiva sugli habitat e produce un forte stress agli animali, provocando la dispersione dei nuclei familiari, fino a stravolgere i normali ritmi riproduttivi. Cosa particolarmente grave quando si tratta di specie già a rischio di estinzione.
Altro effetto grave è quello legato all’inquinamento da piombo, un metallo tossico, altamente cancerogeno, che causa il saturnismo.
La dispersione del piombo presente nelle cartucce attraverso il deposito sui terreni agricoli, in laghi, stagni e acquitrini, e con l’ingestione attraverso la catena alimentare, può provocare gravi problemi alla fauna, ma anche all’uomo. Una LCA (Life Cycle Assessment), cioè una valutazione di impatto ambientale realizzata dal chimico ambientale Dr. Massimo Tettamanti ha valutato che, anche rimanendo nei limiti imposti dalla legge, la caccia «potrebbe creare un impatto ambientale annuale paragonabile allo smaltimento diretto in discarica di tutti i rifiuti prodotti in un anno dalla regione a maggior carico di rifiuti, la Lombardia, e al contemporaneo smaltimento nell’ambiente di circa 500.000 batterie d’auto» (cfr., Valutazione di impatto ambientale di un anno di caccia in Italia – PDF).
I cani, strumenti di caccia usa e getta
La pratica venatoria ha anche altri aspetti meno conosciuti. In Italia sono detenuti 1 milione di cani a fini venatori. E accade che possano essere vittime di infortuni e incidenti, anche mortali, determinati dalle stesse armi da fuoco, dallo scontro con le prede, dalle asperità del terreno, da avvelenamenti o dall’annegamento. Nel 2016 sono state 3000 le pratiche di indennizzo per incidenti di caccia con la morte dei cani da caccia. Gli indennizzi possono andare da 400 a 2000 euro e più. Alcune associazioni animaliste denunciano il fatto che ci possano essere anche delle truffe dietro ad un numero così alto di incidenti, e che i cacciatori si liberino dei cani considerati ormai inadeguati alla caccia (perché malati o anziani) mascherando la loro uccisione come incidente di caccia, per intascare l’indennizzo.
Al di là dell’indennizzo, l’abitudine tra i cacciatori di liberarsi dei cani “inadeguati” è molto diffusa. All’inizio della stagione venatoria è facile trovare nei canili molti cani da caccia, abbandonati perché non più adeguati per l’attività venatoria e magari sostituiti da cani più giovani. Prima dell’inizio della stagione venatoria i cacciatori, infatti, selezionano quali cani mantenere e valutano l’idoneità di un nuovo cane ad essere utilizzato per l’attività venatoria.
I gestori dei canili hanno una chiara percezione della situazione, soprattutto nelle aree dove l’attività venatoria è maggiormente diffusa e dove esiste un’azione efficace e diffusa di recupero degli animali dal territorio, come nel bresciano: «Setter, segugi, breton… la storia si ripete. Il cacciatore compra un cane da caccia e lo prova, lo testa sul terreno. Se dopo le prime battute il fido compagno adempie al suo dovere viene arruolato, altrimenti la scelta è ucciderlo o, più comunemente, abbandonarlo – spiega Adelina Abeni, titolare del canile di San Rocco. – Sempre più cacciatori si presentano alle nostre porte per consegnarci l’animale inetto. Le ragioni? I cani non sono adatti all’attività venatoria, spesso perché hanno paura dello sparo o perché non dimostrano un forte istinto predatorio ed esplorativo».
In Sicilia la situazione non è di certo molto diversa, solo che, mancando proprio l’attività di contrasto al randagismo e di censimento dei randagi sul territorio, tutte queste situazioni non emergono. Secondo Lorenzo Croce, Presidente dell’Associazione AIDAA: «Sono almeno 40.000 i cani abbandonati ogni anno da cacciatori e pastori, che nella migliore delle ipotesi vanno a riempire i canili del centro e sud Italia mentre molto spesso gli abbandoni avvengono nelle campagne, dove i cani crescendo si incrociano e vanno ad incrementare il numero dei randagi». Un comportamento disumano e illegale da parte dei cacciatori che accresce un problema che in Sicilia è già divenuto emergenza cronica, e che costituisce un peso sociale ed economico non indifferente per le casse comunali.
Da ultimo, non posso non sollevare una questione che ci riguarda come cittadini italiani e del mondo, e che ci richiama ad un compito oggi ancora più ineludibile: difendere la natura, difendere il futuro dei nostri figli su questo pianeta. L’art. 1 della Legge Quadro sulla caccia n. 157/1992 dichiara espressamente: «La fauna selvatica è patrimonio indisponibile dello Stato ed è tutelata nell’interesse della comunità nazionale ed internazionale». Parole che sembrano collidere con la realtà. La fauna è un bene collettivo, della comunità globale, che dobbiamo custodire anche per le prossime generazioni, eppure si consente ad una piccolissima parte di popolazione (meno dell’1% in Italia) di disporne a proprio piacimento, di brutalizzare e distruggere tanta bellezza, in cambio di quel misero insignificante obolo che viene richiesto per rilasciare il tesserino venatorio. Licenza di uccidere a basso costo, che paghiamo tutti a caro prezzo.