Tutto bene?
“Non è al sicuro, ma sta bene” (he’s not safe, but he’s good) –fa dire nel suo romanzo fantasy Il leone, la strega e l’armadio lo scrittore Clive S. Lewis a uno dei protagonisti.
L’efficacia retorica della formulazione risiede nel fatto che le due condizioni non vengono presentate, contrariamente a quanto solitamente ci appare, come mutuamente esclusive: si può non essere in una condizione di sicurezza, ma star bene.
Se questo è possibile, se ne conclude che lo star bene non dipende necessariamente dall’essere al sicuro. Conclusione un po’ contro-intuitiva, di questi tempi. Non suona un po’ stridente?
Se sì, il motivo probabile va ricercato nella qualità e quantità di messaggi in senso inverso che l’odierna comunicazione pubblica vi propina: sono tutti improntati al ‘non puoi star bene se non sei al sicuro’.
Questo principio è empiricamente smentibile. Basta trovare qualcuno che, come il personaggio di Carol (era il leone), lo falsifichi. Personalmente trovo nella mia memoria situazioni vissute in cui stavo bene pur non essendo al sicuro. Così come chiunque sia devoto a un ideale o a una missione che implica pericolo si sentirà bene nel realizzarli, consapevole di appagarsi nello svolgimento del proprio compito e gratificato dal valore dell’obiettivo: pensiamo ai missionari in aree pericolose del mondo; alla dirittura morale e al senso del dovere di un giudice minacciato dalla criminalità; o anche, se volete esempi meno nobili, a chi compie bravate di enorme pericolosità per sentire piacevoli sensazioni adrenaliniche.
Consideriamo, per sviluppare il ragionamento, alcune posizioni in merito. Per esempio le seguenti tre:
(1) essere al sicuro è il fine a cui tutti gli altri vanno subordinati;
(2) si sta bene solo se si è al sicuro;
(3) non importa come si sta, si deve comunque essere al sicuro.
Quale di queste vi suona familiare? A me la (1) e la (3), o forse tutt’e tre.
Abbiamo visto che la (2) è smentibile, ma non mi propongo di stabilire quale sia sostenibile e quale no. Al momento vorrei semplicemente indagare. Ho anche l’impressione che governanti e media premano molto sulla (3), e ammetto che ciò mi causa un certo disagio: non sono sicuro che non mi interessi come sto, pur in condizioni di garantita sicurezza. Se ci stessi male, forse comincerei a mettere in questione la priorità della sicurezza. Ma questa potrebbe essere una mia esigenza non condivisa dal resto del mondo.
Queste tre formulazioni non sono così definite e distinte, nel dibattito pubblico. Scivolano facilmente e impercettibilmente l’una nell’altra, a volte si sovrappongono. Ne deriva un danno significativo: non si agevola la valutazione di ciò che comportano. E comportano cose molto diverse fra loro. Credo tutto sommato che la (2) sia utile, pur non essendo vera. Forse dal punto di vista sociale non è così importante il fatto che sia epistemologicamente confutabile; perché in fin dei conti, se credi che stai bene solo essendo al sicuro, probabilmente eviterai pericoli –ed è difficile pensare che questo non sia un vantaggio per tutti, il più delle volte.
Ma la (3) comincia a diventare sospetta, per il fatto che a molti invece come si sta importa eccome: è probabile che, finché stare al sicuro li farà star bene, si impegneranno per starci; ma è altrettanto probabile che, se in qualche modo li farà star male, tenderanno a mettere in dubbio lo stato di sicurezza. (Gli esempi fateli voi, non mancano).
Resta la (1). Davvero un’asserzione molto impegnativa. Non so chi se la sentirebbe di tentarne una dimostrazione. Ma penso che se ne guardino bene tutti, nella speranza (di alcuni manipolatori) che buttandola lì, in mezzo a un discorso, possa attraversare la mente in un baleno in compagnia di altre frasi pseudo-evidenti, eludendo così un’attenta disamina dell’intelletto.
Chi stabilisce cosa stabilire?
All’apertura di una recente manifestazione studentesca a Venezia, il giovane universitario che aveva preso la parola esordì dicendo che i governanti «ci vogliono imporre la loro visione» basata sulla subordinazione di tutte le esigenze umane alla sicurezza. Da qui lo studente derivò una serie di considerazioni sull’arbitrarietà delle note misure socio-politiche attuali e sul loro carattere coercitivo.
Ciò che mi colpì fu l’approccio meta-tematico alla questione: la necessità, da parte del governo, di attuare certe procedure avrebbe fondamento in una visione ben precisa; ma questa visione, a sua volta, dove troverebbe il suo fondamento? Si può considerare la Sicurezza il valore supremo e il paradigma rispetto a cui valutare tutte le attività umane? Potrebbe darsi. Non si può negare che sia quantomeno possibile. E forse sono pure in tanti a pensarlo, in giro per il mondo.
Soffermiamoci però sul titolo di questa sezione: Chi stabilisce cosa stabilire? Sappiamo cosa vogliamo stabilire? Ritengo che il dibattito recente si sia focalizzato sulla questione ‘se la Sicurezza possa essere il valore supremo’. Chiederci chi può aver stabilito questo ci conduce a figure rilevanti del panorama giuridico, politico, filosofico. Dopodiché ci domanderemo come possano stabilirlo. Ci tornerò a breve.
Prima è opportuno far notare che spesso si presentano dilemmi la cui soluzione è molto difficile, sofferta, scelta al prezzo di sacrificare qualcosa di altrettanto importante. Qualche anno fa il problema dell’Ilva di Taranto mise la gente di fronte alla dolorosa scelta di optare per il lavoro o per la salute (finché varie parti dell’impianto non fossero state messe in sicurezza i giudici non avrebbero consentito la riapertura; ciò era a salvaguardia degli operai, per i quali però l’esigenza di riprendere il lavoro era vitale). Perfino i media colsero il drammatico dilemma ‘salute o lavoro’. Come tanti nel quotidiano: nel contrasto appoggio mio figlio o mio marito? Dedicherò più tempo alla famiglia o alla carriera? Devo dire una bugia a fin di bene o mantenermi sincero? Devo insistere con la terapia, nella speranza di salvare un paziente compromesso, o fargli vivere gli ultimi giorni senza acuirne la sofferenza? Devo abortire o tenermi il bambino? E altre centinaia di esempi.
Non credo nessuno abbia la pretesa di poter decidere simili dilemmi ritenendo di avere la soluzione definitiva. Non si tratta di dire o fare ‘la cosa giusta’, ma di rendersi almeno conto che c’è un problema che per sua stessa natura ammette varie, ragionevoli risposte.
Sembra che in Italia invece sia successo proprio questo: una decina di tizi al governo, a partire dal 2020, ha deciso che il dilemma libertà/salute andava risolto a favore di quest’ultima. Ha deciso pure in quale forma, in quale grado e in quali circostanze l’una debba prevalere sull’altra.
Ha deciso tutto. Come si debba vivere e secondo quali priorità.
Sarà pure che canti e balli sui balconi accompagnati da pentole e coperchi avranno dato la sensazione che tutti ne fossimo contenti. Ma non eravamo proprio tutti: il 2021 ha visto protestare milioni di italiani che danno, invero, un ordine diverso a quelle priorità.
Torniamo dunque a chi può stabilire se la Sicurezza sia il valore supremo. Zagrebelsky per esempio non ha problemi, ha già deciso (per tutti). Come? Beh, semplicemente affermandolo. In questa intervista si legge: «quale diritto è più fondamentale del diritto di tutti alla vita e alla salute?». Per lui dilemmi non ce ne sono. Ma, che sia una fortuna o un peccato, non si vive di solo Zagrebelsky. A costo di complicare un po’ la questione dobbiamo prepararci ad accogliere altri punti di vista. In questo articolato documento[1] che ospita un’intervista multipla a insigni giuristi, Massimo Luciani (ordinario di diritto costituzionale a La Sapienza) riconosce che «la brutalità del dilemma che ci ha piazzato davanti con imprevedibile repentinità questa pandemia è l’alternativa tra la salute di tutti e i diritti fondamentali di ognuno» (p. 18) e che «nemmeno la salute prevale sugli altri diritti o princìpi costituzionali» (p. 11). Gli fa eco Giorgio Lattanzi (presidente emerito della Corte costituzionale): «il diritto alla salute di per sé non è in grado di prevalere su qualunque altro diritto» (p. 10).
E siamo in un bel guaio. I rinomati giuristi paiono concordare anzitutto nello stabilire che bisogna stabilire se la sicurezza/salute sia il valore primario. Sono anche d’accordo nell’indicare la fonte risolutiva della questione nella Costituzione. Il problema però è che nella Costituzione di diritti irrinunciabili ce ne sono diversi (lavoro, salute, istruzione, libera circolazione, pieno sviluppo della persona umana, ecc.) fra i quali non è stata stabilita alcuna gerarchia. Come scrisse la Corte costituzionale nella sentenza n. 85 del 2013, «tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri», poiché in tal caso «diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette».
Guardando alla Costituzione quindi non abbiamo risolto il problema (il più originario: bisognerebbe stabilire chi stabilisce cosa stabilire) ma abbiamo imparato una cosa: ci sono molti principi importanti; singoli diritti e singole libertà devono trovare il loro bilanciamento con altri diritti e con altre libertà, ponendo in questo rapporto i loro limiti. Dover dare la priorità a uno piuttosto che a un altro può metterci di fronte a un dilemma, cioè a qualcosa di problematico che implica un travaglio di scelta e di valutazione. Coi dilemmi entrano in gioco sensibilità diverse, la natura individuale, il vissuto e l’esperienza di ciascuno, valori personali e valori comunitari, tradizione e storia. Chiunque pretenda di semplificare questa complessità, o risolverla ex auctoritate con un atto d’imposizione, non potrà addurre come fondamento e legittimazione di quell’atto nient’altro che il proprio arbitrio e, nel caso peggiore, la propria forza.
È accaduto che si è preso il diritto alla salute e lo si è sovrapposto a tutti gli altri, tirando dritti come un treno su un’unica via spacciata come obbligata e preminente. L’esigenza di sicurezza ha ‘tiranneggiato’, ha prevalso su ogni altra esigenza umana.
Proprio come disse lo studente di Venezia: il Governo ci ha imposto una visione.
Il feticcio
Come tale visione abbia potuto esser accettata dai più, esser data quasi per scontata («la salute prima di tutto», qualunque cosa ciò significhi), si spiega a mio avviso col carattere feticistico del concetto di Sicurezza, sia nella sua forma biologica (salute e incolumità), sia nella sua forma sociale (protezione).
Uso il termine ‘feticistico’ nel senso illustrato da Marx nel I libro del Capitale, quando afferma che le merci acquistano tale carattere poiché recano «l’immagine del rapporto sociale tra produttori (…), facendolo sembrare come un rapporto sociale tra oggetti» (K. Marx, Il Capitale, lib. I sez. 1, §4. Roma 1968, p. 69). Detto semplicemente, il valore delle merci viene oggettivato in esse e ritenuto una loro qualità intrinseca (‘carattere enigmatico’ lo definisce Marx), invece che essere compreso come prodotto del lavoro umano e delle sue caratteristiche sociali. [2]
Credo che lo stesso avvenga per ciò che riguarda il valore attribuito alla Sicurezza: si dimentica che esso ha origine da relazioni ed esigenze umane, venendo invece oggettivato nelle stesse procedure di securizzazione, come se queste avessero in sé un valore. Infatti, continua Marx, «quello che prende per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto tra cose è solamente il determinato rapporto sociale che esiste tra gli stessi uomini». Poniamo che io abbia un oggetto a cui tengo e un cassetto con un lucchetto. Il valore non risiede nel lucchetto con cui chiudo il cassetto, ma nell’oggetto che ho scelto di custodirvi e in ciò che esso rappresenta per me (rispetto ad altri che potrebbero impossessarsene).
Il feticismo qui appare analogo alla concezione marxiana: è come se la società contemporanea attribuisse valore primario alla chiusura col lucchetto, indipendentemente dalle dinamiche e dalle relazioni sociali che hanno condotto alla mia scelta di custodirvi quel determinato oggetto. È invece in esse che risiede il valore, e sono esse che danno senso alla procedura.
Ricordo che in una scuola venne organizzato un seminario pomeridiano sullo stato di avanzamento della fisica contemporanea. Rivolto originariamente ai docenti, suscitò interesse anche negli studenti, i quali chiesero di potervi partecipare. La scuola negò il consenso adducendo la ragione che i bidelli non svolgevano servizio fino a quell’ora e che per motivi di sicurezza la presenza degli studenti era da escludersi. Paradossalmente, la scuola abdicava a una sua funzione primaria – diffondere la cultura – per attuare una mera procedura formale avulsa dall’esperienza reale (quale effettivo pericolo avrebbe minacciato gli studenti seduti in aula magna, interessati a seguire un seminario?). L’aspetto feticistico ha senz’altro prevalso: si conferì al protocollo di sicurezza valore in sé, privo di ogni relazione con l’utilità dell’evento, con le sue finalità, con le esigenze didattiche, con le aspettative dell’uditorio e, non da ultimo, con le ovvie capacità di auto-preservazione dei partecipanti (perfettamente in grado di fronteggiare evanescenti minacce alla loro incolumità).
Di fronte al feticcio, tutto questo arretrava. Come davanti alla Croce, nel medioevo, tutto il resto cedeva il passo.
Nell’ambito di tale concezione notiamo che il rischio – come sostiene il sociologo Ulrich Beck – viene anche messo in scena. Non nel senso che non esista realmente, ma nel senso che «il rischio globale, con la sua onnipotente esibizione mediatica, rende quotidiane la morte e la sofferenza, non solo come destino individuale ma anche come destino collettivo».[3] Mi pare che niente possa testimoniarlo meglio dell’attualità.
È stato appurato[4] che nel ‘terribile’ 2020 «la mortalità ha registrato (…) un aumento del 9%, a livello nazionale, rispetto alla media del quinquennio 2015-2019», ma che «le regioni che riportano aumenti significativamente più alti della media nazionale sono il Piemonte, la Valle D’Aosta, la Lombardia e la Provincia autonoma di Trento. Le Regioni del Centro e del Mezzogiorno non mostrano variazioni rilevanti». In tutto il resto d’Italia dunque la situazione era normalissima; vi fu anzi, in quel primo semestre, una mortalità inferiore alla media 2015-2019.[5] Eppure la messa in scena mediatica accompagnò la politica in una direzione ben precisa: proprio in quei mesi si dispose in tutta la penisola uno dei più grandi isolamenti forzati della storia contemporanea. Ai piedi del feticcio securitario crollarono centinaia di migliaia di imprese e altrettante famiglie finirono sul lastrico; per tacere di tutto l’orrore psicologico e la sofferenza fisica del prolungato confinamento domestico. E perché tutto questo? Non sarebbe bastato leggere i dati e attenervisi? È infatti ciò che fece il comitato scientifico, suggerendo conseguentemente misure più rigorose solo in alcune zone.[6] Era ovvio: l’anomalia marcata riguardava qualche regione e provincia; non aveva alcun senso, in quel momento, sprangare il resto del paese e condurlo al limite del collasso. Ma l’imperativo di governo e primo ministro fu ‘chiudere’; indipendentemente da che cosa, dove e perché. Il valore feticistico della procedura si impose senza riguardo a distinzioni, analisi, dinamiche socio-sanitarie, criteri di proporzionalità fra problemi e rimedi nelle varie aree.
Come tale, come feticcio, fu parimenti accolto dalla popolazione, alienata in un Lebenswelt distopico, coscientemente o meno consegnatasi all’inesorabile e penalizzante meccanismo dei decreti. Rivestito di valore autonomo, esso poté operare la reificazione dei valori e delle coscienze in una procedura estraniante, irrelazionabile a bisogni reali. Come il feticismo delle merci, in Marx, era causato dalla «credenza che il carattere sociale del lavoro [e con esso il suo valore] appartenga alle cose», analogamente i cittadini credettero nel valore intrinseco del dispositivo securitario: non rispondeva di fatto ad alcun bisogno di sicurezza (come forse in Lombardia e in altre province del nord), imponendo come organizzazione razionale-astratta di tutti i settori della vita sociale il proprio dominio sulle esistenze. Il feticcio Sicurezza – diremo con parole di Baudrillard – annunciava «nello stesso tempo il luogo dell’estasi del valore e il luogo della sua sparizione».[7]
Di contro, il nuovo anno 2021 ha rappresentato un deciso punto di svolta per molta gente che intendeva, sia in via di principio che nei fatti, ricondurre ogni regolamentazione biopolitica a esigenze reali e all’immediato campo d’esistenza nel quale esercitare la propria libertà di valutazione. Colpiva, ad esempio, il provocatorio «lasciateci morire in pace» di un cartello di protesta in una manifestazione di Chivasso. Oltre all’interpretazione letterale, per la quale la ‘pace’ che condurrebbe alla morte risulterebbe preferibile a una vita in continuo stato d’angoscia, questo messaggio era un chiaro richiamo alla riappropriazione del valore: esso è istituito dall’individuo e dalla sua relazione ad altri, in una dinamica intersoggettiva che, eventualmente, deve esprimere il bisogno di una procedura anziché venirne soggiogata.
Diversamente, finiremo per trovarci facilmente nella situazione inversa rispetto al leone di Carol: he’s safe, but he’s not good.
[1] Giustizia Insieme, n. 961 – 2 aprile 2020 (ISBN 978-88-548-2217-7).
[2] Questi concetti presuppongono nel lettore una certa familiarità con le teorie del valore dell’economia politica classica e con la legge del valore delle merci di Marx. Confido comunque che il parallelismo risulti intelligibile ai più.
[3] U. Beck, Conditio humana. Il rischio nell’età globale. Roma-Bari 2008, p. 24.
[4] Sesto rapporto congiunto ISS-ISTAT, https://www.istat.it/it/files//2021/06/Report_ISS_Istat_2021_10_giugno.pdf , p. 2. Accesso del 13/10/2021.
[5] Cfr. l’accurato articolo di Fronte Ampio https://www.fronteampio.it/listat-ammette-in-13-regioni-su-20-nel-2020-meno-morti/ , elaborato sulla base delle stesse rilevazioni Istat. Accesso del 13/10/2021.
[6] Qui https://www.corriere.it/cronache/20_agosto_06/coronavirus-verbali-cts-7-marzo-esperti-chiesero-chiusure-differenziate-ma-arrivo-lockdown-0ebb6150-d7e3-11ea-ad6c-bda3a14094de.shtml l’articolo del Corriere della sera che descrive con esattezza il contenuto dei verbali desecretati.
[7] J. Baudrillard, Le strategie fatali. Milano 2007, p. 59.