Si sa, la tradizione del matrimonio in Sicilia è sempre stata molto sentita ed il valore del matrimonio è testimoniato da numerose usanze e tradizioni che tutt’oggi hanno larga diffusione nell’isola e che hanno a che fare con la preparazione della ragazza e della sua dote.
Soprattutto in passato le ragazze si sposavano quando ancora giovanissime e i genitori combinavano per loro i matrimoni più convenienti per le famiglie.
A sposarsi per prima era la primogenita e poco importa se ella non era innamorata del ragazzo scelto per lei, tanto l’amore sarebbe venuto dopo “a letto e con la nascita dei figli”.
Nella Sicilia d’altri tempi era d’uso che il giovane figlio maschio, per lasciare intendere alla madre di essere pronto a maritarsi, non portava a casa la paga mensile; a quel punto era chiaro alla madre che era arrivato il tempo di scegliere per lui la buona moglie e, dopo aver parlato con il marito, iniziava la ricerca della futura sposa.
Numerose erano le usanze dell’isola perchè la famiglia del ragazzo avesse la prova che la ragazza potesse essere degna sposa del figlio.
Nella zona di Modica, ad esempio, la madre si recava con una scusa, a casa della giovane e se l’avesse trovata affaccendata nelle faccende domestiche allora avrebbe esplicitato il motivo della sua visita; qualora invece l’avesse trovata ad oziare o a mangiare, con una scusa avrebbe lasciato la casa e sarebbe tornata alla ricerca di un’altra fanciulla.
Moglie (e marito) dei paesi tuoi!
La scelta della sposa non era cosa facile ed era condizionata da 4 virtù fondamentali: operosità, onestà, dote e parità della condizione sociale.
“Mogli e buoi dei paesi tuoi” era un detto tipico della Sicilia di fine ‘800, poiché si includeva nelle condizioni per la scelta della giovane il fatto che ella abitasse lo stesso paese del ragazzo in cerca di moglie e che venerasse lo stesso patrono.
Perché trovasse marito e si potessero “maritare” alle fanciulle non erano richiesti né amore, né l’essere di aspetto fisico avvenente, né mostrare particolari doti di intelletto.
Era piuttosto importante che la donna sapesse filare, cucire, tessere e che sapesse cucinare deliziosi manicaretti per il futuro marito; per questo le giovani venivano severamente istruite fin dalla tenerà età dalle madri che avevano il compito di preparare le figlie. Dovevano essere un “brazzu di mare”, come si diceva in Sicilia, intendendo, con questa metafora che descrive quella porzione di mare generosa di pesci, alghe, molluschi, barche e coralli, che fossero piene di qualità.
Trovare un buon marito e maritarsi era il sogno di quasi tutte le fanciulle siciliane, ed anche se non lo fosse stato, questo rappresentava un obiettivo importante da raggiungere perché avrebbe restituito alla famiglia rispetto ed onorabilità.
La ragazza rimasta “zitella” si prestava invece a malelingue e disonore per sé e per l’intera famiglia.
Quando il marito tardava ad arrivare le giovani rivolgevano preghiere ai Santi perché facessero loro la grazia di trovare “un beddu picciotto graziusu”. Tra questi S. Antonino, S. Pasquale, S. Giovanni e Santu ‘Nofriu u pilusu.
In particolar modo il Santo venerato dalle giovani zitelle e dalle donne in età avanzata era proprio Santu ‘Nofriu appellato come “u pilusu” per via dei lunghi capelli, della folta barba e dei peli che gli ricoprivano tutto il nudo corpo.
Tra le tante grazie e preghiere rivolte al santo si racconta anche una storia, quella di Santo ‘Nofriu u pilusu e l’acqua maritata. Questa storia ha a che fare anche con l’usanza di ricorrere all’ausilio di maare e fattucchiere, che con l’aiuto di speciali filtri magici facevano innamorare qualche giovane di una fanciulla rimasta ancora zitella.
Si racconta in particolare di una fattucchiera, ‘gna Saridda, che suggeriva tra i suoi rimedi quello di far bere al ragazzo un bicchiere di “acqua maritata”, cioè l’acqua benedetta della Chiesa, mischiata con qualche goccia di brodo di lucertola ed una sola goccia di sangue prelevata dal dito anulare sinistro della ragazza. Questo infallibile filtro d’amore avrebbe fatto innamorare il giovane perdutamente.
A questo proposito si racconta una storia:
In un paese di montagna, uno di quelli tanto piccoli dove tutti sanno tutto di tutti e le voci corrono in fretta, in una fredda mattina di un gelido inverno, vi era Don Tanu che era seriamente preoccupato per le improvvise sparizioni dell’acqua benedetta dall’acquasantiera che egli puntualmente riempiva al mattino ed altrettanto puntualmente ritrovava prosciugata alla sera.
In paese si vociferava già che Don Tanu fosse estremamente tirchio:
“Ma chi fa patri parracu, sparagna puru ‘nta l’acqua? Iu u dicia ca chissu è un pezzu di tirchu! Puru li cannili astuta prestu!”
Sconvolto dalle sparizioni continue ed in preda all’ossessione di scoprire cosa stesse accadendo, Don Tanu decide di rivolgersi ai fedeli e durante la messa disse loro:
“L’acqua nun basta e nun arriva di la matina alla sira! Ma chi faciti, va viviti?”
Dal fondo della chiesa un giovane ritenuto mezzo “ritardato” di nome Jachinu rispose:
“Ma chi fa babbia? Chi schifiu! L’acqua maniata di tutti cu si la bivi!”
Alle sue parole la Chiesa si riempi di scroscianti risa, ma il povero Don Tanu rimase senza la sua sperata risoluzione del mistero.
Purtroppo nessuno seppe mai che l’acqua benedetta spariva perchè alla sera ‘gna Saridda, senza che la vedesse nessuno, si intrufolava nella chiesa, immergeva un piccolo recipiente nell’acquasantiera per portarsi via l’acqua benedetta che le serviva per i suoi filtri d’amore.
Nonostante il paese fosse piccolo e le voci correvano in fretta, nessuno seppe mai la verità ed anzi si diffuse presto la diceria che fosse Santu ‘Nofriu u pilusu che ogni giorno si dissetava da quell’acquasantiera e che aiutasse le ragazze a trovare marito.
Ad ognuno le sue grazie!
C’era anche in Sicilia chi desiderava liberarsi di quel marito sposato per interessi delle famiglie soprattutto nei casi in cui nemmeno “il letto e i figli” avevano fatto nascere l’amore.
E c’era anche chi desiderava abbandonarsi con passione alle braccia dell’amante segreto senza doversi nascondere e temere di essere scoperte.
Anche in questo caso ci si affidava a maare e pozioni speciali da far bere ad un uomo, ma in questo caso con l’intento ben diverso rispetto a quello di farlo innamorare perdutamente.
Parliamo di storie di avvelenamenti e di pozioni della morte.
In Sicilia forse la più nota delle avvelenatrici seriali è Giovanna Bonanno, passata alla storia con il nome de “la vecchia di l’acitu”.
Alla fine del 1700 numerose furono le misteriose morti attrbuite alla megera di Palermo, tanto temuta e rispettata che nei suoi riguardi tutti avevano profondo rispetto.
Dalle donne del popolo a quelle dell’alta borghesia palermitana, numerose furono le signore che si servirono dei suoi servizi per liberarsi di un marito geloso ed opprimente, spesso proprio per poter vivere la passione di un amore clandestino.
Tra loro Angelina, vicina di casa della Bonanno nel quartiere Zisa, che decise di rivolgersi alla vecchia megera per liberarsi per sempre del marito e concedersi così all’amore dell’amante.
Ad Angelina la Bonanno vendette una piccola fiasca contenente un miscuglio di cui le disse di mettere poche gocce nella minestra del marito. Quella stessa sera l’uomo fu colpito da un malore che lo portò alla morte immediata.
Nel tempo la fama della Vecchia di l’acitu crebbe e con essa le sue finanze.
Così chiamata perchè il suo intruglio velenoso aveva come base un rimedio contro i pidocchi a base di aceto ed arsenico, presto divenne la donna più rispettata di tutta Palermo.
Inquisità con l’accusa di stregoneria, quando le fu chiesto se agisse per denaro o per pura malvagità, queste furono le parole con cui rispose e si giustificò:
“Io non davo l’acqua a fin di male, ma per levare di mezzo liti, dissapori, impedire mali maggiori e dar pace alle famiglie […]
Finchè mondo sarà mondo, capiterà che una donna maritata contrae amicizia […] essa vive nel peccato mortale; e così pericoloso che il marito ammazzi lei e l’innamorato. Due morti! Il marito è arrestato ed impiccato: e sono tre. Beh! Sacrificando il marito si salvano la moglie e l’amante, i quali si liberano dal peccato; i figli restano con la madre e la pace ritorna in casa. Io ho fatto del bene!”
Va riconosciuto che il ragionamento non fa un piega!