C’è una parte della Sicilia rassegnata alla sconfitta, ed una parte della Sicilia che cerca di opporre un freno a questo lento ed inesorabile declino. Forse è il momento di scegliere da che parte stare.
I siciliani, secondo me, immaginano il tempo come un percorso verso un destino ineluttabile e spesso non vogliono creare grandi stravolgimenti.
I siciliani, dopo ogni evento negativo, riescono a ripartire con molta energia perché è la terra che li aiuta. Basta girare lo sguardo e si viene rapiti dalla magia. Vicino ad una bomba, ad esempio, un mare e un paesaggio bellissimo, vicino ad una strada dissestata un cielo meraviglioso, ai bordi di una strada fiori di tutti i colori, vicino ad un bene pubblico crollato un bosco meraviglioso, in un’area archeologica abbandonata i colori della natura.
L’unica categoria di siciliani che non dimenticano sono i politici, loro sono consapevoli di questo fatto e allora hanno imparato a sostenere questa “virtù”. E così, se una strada è dissestata e diventa impraticabile o magari qualcuno ci muore, fanno aggiungere qualcosa, un limite di velocità, un segnale di pericolo, un piccolo strato di asfalto così che la gente ricongiunga il filo con il proprio destino e non faccia nulla per cambiarlo. E funziona! L’emergenza finisce e arriva la normalità.
Assecondano questo modo di agire della classe politica gli enti pubblici preposti a fare le cose. Gli enti sono fatti di persone che hanno legami che “arrivano” fino a noi, ci sono i nostri amici, i nostri parenti, conoscenti, gente che è vicina a noi o magari noi stessi. Quello che viene dato è uno spazio dove agire liberamente o arbitrariamente, una specie di impunità in un piccolo ambito, la libertà di fare o di non fare, se sei operatore, un carico di lavoro minore, se sei dirigente un’indennità magari senza guardare troppo i risultati. Per mantenere questa libertà “arbitraria” siamo frenati a portare avanti e a far portare avanti anche da chi non è dipendente pubblico questo senso comune del destino perché viene iniettata nelle vene una piccola forma di paura per quello che potrebbe accadere rompendo il silenzio… e allora… dimentichiamo tutti. E per dimenticare non ci poniamo le domande più stupide come, ad esempio, a che serve la segnaletica turistica se non ci sono le strade, a che servono i muretti a secco se non ci sono i muri di sostegno, a che servono le ringhiere o le tettoie in legno nelle aree archeologiche se non si riesce nemmeno a pulirle dalle erbacce, a che servono i musei se vengono dimenticati, a che servono le ville se non hanno piante ornamentali, a che servono i parchi naturali se le strutture rimangono chiuse, a che serve un esproprio se non viene segnato il confine, a che servono le parole senza il fare.
Fate queste domande e avrete una sola risposta: il silenzio o strizzata di spalle oppure qualcuno vi spiegherà che così vanno le cose.
Così la “classe politica siciliana” (con qualche eccezione) dal piccolo comune fino alla grande città e poi fino ad alti livelli, raggiunge il suo obiettivo: si sposta avanti nel tempo mantenendo il proprio controllo, come un corpo unico, maggioranza e opposizione, con un unico fine, quello di far dimenticare con le parole, di lasciare un piccolo spazio libero tra il fare e non fare, ad esempio si parla di stabilizzazioni in tutti gli enti ma nessuno parla di lavoro, di cosa c’è da fare, di cosa hanno bisogno i cittadini, della distanza che c’è tra la Sicilia e l’Europa, però ci chiedono di votare e noi… dimentichiamo.