Accoglienza e integrazione, due parole fin troppo usate nel linguaggio quotidiano. Non passa giorno senza che il tema dei migranti occupi prime pagine o senza ascoltare notiziari che parlano di accoglienza e di inclusione sociale. Si tratta dei nuovi imperativi del nostro tempo, fino a poco tempo fa pressoché indiscutibili, a meno che non si fosse disposti a correre il rischio di passare per razzisti. Ma siamo così sicuri che l’integrazione possa essere trattata come un dovere morale e che basti accogliere per integrare? Cos’è l’integrazione e cosa significa nel linguaggio politico?
Intanto dobbiamo partire dalla considerazione che non è affatto vero che il mantenimento dell’unità politica di uno Stato si pone come il primo vero ostacolo per una società multiculturale. La storia ci insegna che non è così. Il processo di integrazione è infatti coinciso con il processo di costruzione della Nazione, all’interno della quale gruppi culturali eterogenei hanno avuto la possibilità di trovare, al tempo stesso, sia il riconoscimento delle loro differenti peculiarità, che il rinvenimento di un’identità comune, grazie proprio all’appartenenza ad una stessa comunità politica.
Del resto la tutela delle minoranze etniche culturali è uno dei principi cardine sancito all’art.6 della nostra Costituzione e all’art. 3 troviamo affermato il divieto di ogni discriminazione in base alla razza, lingua, religione etc. Pertanto nulla di nuovo sotto questo cielo. Se mai, occorre dire che ciò che veramente si allontana dal progetto originario dei padri costituenti è l’idea di quell’ egalitarismo forzato che di fatto si pone come ostacolo all’integrazione, in quanto determina l’assimilazione di una cultura ad un’altra. Si tratta di quella tendenza ad affermare un principio astratto di uguaglianza che fa perdere di vista le differenze culturali, fino al punto di rimuoverle.
In fondo l’idea che sta alla base di una società multiculturale non è dissimile da quella che sta alla base del pluralismo democratico, ossia l’idea che una vera uguaglianza si realizzi a partire e non contro le diverse identità culturali. Trattare in modo uguale le diverse culture senza riconoscerne le differenze, non vuol dire infatti valorizzarle, ma se mai omologarle e appiattirle su un unico modello. Se questo è vero, allora bisognerà comprendere che nessuna integrazione è possibile rinunciando alle identità, ma se mai a partire da una piena considerazione di esse. La rimozione delle diversità culturali è infatti il segno tangibile di quella falsa accoglienza che finisce con il fare il gioco dell’imposizione di un modello unico planetario, quello della libera circolazione delle merci e delle persone sul piano liscio del mercato.
Il paradosso è che oggi si vorrebbe far credere il contrario e cioè che l’idea di identità – intesa strumentalmente come sinonimo di identitarismo – si ponga come il primo ostacolo al pluralismo culturale e apra le porte all’intolleranza e al totalitarismo. Certo è vero che considerare seriamente le diversità culturali, significa anche riuscire a prendere in considerazione la possibilità che non tutte le culture siano integrabili tra di loro e che ve ne possano essere alcune addirittura incompatibili. Ma è pur vero che, se l’accoglienza si misura da quanto chi è straniero riesca sentirsi parte di una comunità e a riconoscersi in valori comuni, allora è anche vero che l’integrazione è possibile solo in una società in cui vi sia un sistema minimo di valori essenziali condivisi. Pertanto, spingersi – in nome di una presunta integrazione – sino al punto di dover mettere in discussione le regole ed i valori fondamentali di una società democratica, non solo è lacerante per chi da sempre li pratica, ma è per di più del tutto inutile, se non addirittura dannoso, per coloro che di questa società vogliono entrare a far parte.
Se tutto questo è vero, allora l’integrazione va vista per quello che è, ossia un lento e per nulla scontato processo culturale. In quanto tale, non è un fenomeno che può essere trattato come un’emergenza, ma implica serie politiche di gestione dei flussi migratori. Si tratta dunque di un programma di lungo periodo che – ben al di là dei facili e sterili buonismi – richiede un impegno politico responsabile. Il dramma è che oggi assistiamo al fenomeno di politicizzazione dell’immigrazione, che finisce con il promuove un’accoglienza incondizionata, non supportata adeguatamente. Si vorrebbe imporre in politica un cieco moralismo che esalta l’accoglienza, senza fare i conti con la rimozione di quegli ostacoli di ordine economico e sociale e garantire le condizioni per una eguaglianza sostanziale.
Ecco perché l’accoglienza non può essere trattata come un dovere morale e – ben al di là degli inutili slogan ideologici – occorre pensare politiche capaci di regolare i flussi migratori e di sostenere i relativi processi di integrazione. A tal fine occorre ripartire dalla giustizia sociale e riprendere a considerare i diritti sociali come la cartina di tornasole di una vera integrazione. Non si tratta dunque di scegliere tra accoglienza o non accoglienza, ma di optare per un’accoglienza responsabile che tenga conto del fatto che solo un’economia in espansione può garantire questa opportunità ad un numero illimitato di persone. Tutte le altre economie – compreso la nostra, che purtroppo in espansione non è – dovranno riparlare di permanenza legale, di permessi di soggiorno e tornare a vincolare questi al contratto di lavoro.