Molti di voi conosceranno i misteri che avvolgono l’identità del noto drammaturgo inglese William Shakespeare. Data l’esigua quantità di informazioni sulla sua biografia, le origini del poeta sono state messe in discussione e numerose sono le prove che appassionano ricercatori e curiosi, desiderosi di ricostruire la vera identità del poeta inglese.
Tra le prove che mettono in dubbio l’autenticità dell’identità di Shakespeare molte sono quelle che si fondano sull’ipotesi che non sarebbe possibile che il figlio di un mercante di lana, proveniente da una famiglia di contadini e piccoli proprietari terrieri, potesse conoscere approfonditamente la medicina, la legge, la caccia, lo sport, le etichette di corte, talvolta la legislazione in vigore nei vari regni dell’Italia del Cinquecento.
Seppure si accettasse la sua origine inglese, resterebbe un mistero come mai il poeta facesse uso di espressioni tipiche di culture ben distanti da quella londinese e la sua minuziosa conoscenza degli usi e costumi delle città che descrive nelle sue opere.
L’appassionante mistero dell’identita di Shakespeare ci conduce fino in Sicilia ed esattamente a Messina, città natale di Michelangelo Florio Crollalanza.
Scrittore messinese, Michelangelo Florio trascorse numerosi anni della sua vita sfuggendo alle persecuzioni a causa delle credenze religiose del padre. Visse tra le isole Eolie, a Venezia, a Verona, a Stratford, a Londra; tutti luoghi compatibili con gli scenari descritti con sorprendente precisione dal drammaturgo inglese e che fanno da cornice a numerose opere come l’Otello e Romeo e Giulietta, per citarne alcune.
Troppu traficu pì nenti
Tra le prove più significative a sostegno dell‘ipotesi che William Shakespeare sia stato in verità Michelangelo Florio, l’opera di quest’ultimo intitolata “Troppu traficu pì nenti” sembra togliere ogni sospetto.
In effetti, è davvero difficile non pensare alla ben più nota opera Tanto rumore per nulla attribuita a Shakespeare e scritta 50 anni dopo.
Anche il ritrovamento, negli anni venti, di un volume di proverbi scritto nel 1583 da Michelangelo Florio contenente numerose citazioni presenti nell’Amleto, opera anch’essa scritta numerosi anni dopo, supporta l’ipotesi dell’identificazione del Florio con il noto Shakespeare.
Tra coincidenze e similitudini la biografia di Michelangelo Florio ben si presta ad essere identificata con quella del poeta inglese e, addirittura, secondo alcuni William Shakespeare sarebbe il nome assunto dal Florio quando, rifugiatosi in Inghilterra, venne ospitato da un oste che lo prese a benvolere e che gli attribuì questo nome in ricordo del figlio William.
Quale che sia la vera identità di Shakespeare e a chi sia attribuibile il corpus delle straordiarie opere lasciate ai posteri, un’antichissima leggenda raccontata in Sicilia è di certo stata da ispirazione per la stesura di Romeo e Giulietta, ed è la leggenda dell’albero di gelso.
La leggenda dell’albero di gelso
Narra la leggenda che Piramo e Tisbe fossero due bellissimi ragazzi che vivevano in case attigue. Figli di famiglie che nutrivano odio l’uno nei riguardi dell’altro, quando sorpresi ad amoreggiare furono rinchiusi, dai genitori che volevano vietarne gli incontri, ciascuno nello sgabuzzino del proprio palazzo.
Nessuno però si era mai accorto che i due sgabuzzini fossero contigui e divisi solamente da un muro.
Attraverso una piccola fessura sul muro scoperta dai due innamorati, Piramo e Tisbe riuscivano tuttavia a scambiarsi baci, sussurrarsi frasi pregne d’amore e romantiche dichiarazioni.
Innamorati e feriti della loro separazione, un giorno decisero di escogitare un piano per fuggire: Tisbe avrebbe raggirato la sua ingenua nutrice, mentre Piramo si sarebbe accordato con il suo guardiano che avrebbe finto di essere stato aggredito e gli avrebbe consegnato le chiavi.
Recuperata la libertà, Priamo e Tisbe vagarono a lungo per le campagne, secondo alcuni nell’agrigentino, fino a quando decisero di ripararsi sotto un antico albero di gelso bianco, dove trascorsero un’appassionata relazione amorosa. Secondo la leggenda, alle prime luci del giorno Tisbe si avvicinò ad una fonte d’acqua, ma alla vista di una leonessa che lì si stava abbeverando dopo aver consumato la sua preda, impaurita indietreggiò e si rifugiò in un buio anfratto, lasciando cadere dietro di sé il velo che le era servito a coprire il viso durante la fuga dal palazzo.
La leonessa, indispettita dalla presenza estranea, prese il velo e lo lacerò sporcandolo con il sangue della preda. Giunto poco dopo, Priamo vide il velo della sua amata lacero ed intriso di sangue e, non trovando la sua amata Tisbe, credette che fosse stata divorata dalla leonessa, così baciato il mantello tante volte e con immenso dolore, estrasse il suo pugnale e con quello si trafisse.
Superata la paura per la fiera, Tisbe uscì dal suo nascondiglio per raggiungere il suo innamorato, ma con sua grande disperazione lo trovò senza vita accasciato a terra ai piedi del gelso e disperata gridò all’albero: “per sempre i tuoi frutti si tingeranno di rosso scuro, nel ricordo di due innamorati che ti bagnarono con il loro sangue“. E pronunciate queste parole, estrasse il pugnale dal corpo dell’innamorato e cadde giacendo morta sul di lui corpo.
Da Modica a Caltagirone, da Siracusa a Messina, da Palermo a Trapani, prima ancora che le vallate si ricoprissero di agrumi e canna da zucchero, era il gelso l’albero più diffuso dell’isola e, secondo la leggenda, è il sangue degli innamorati che assorbito dalla terra, raggiunte le radici, salito fino alla linfa e raggiunti i frutti, li tinse di color vermiglio dando così origine alla diffusione del gelso dai frutti rossi.