Un grido di dolore, che viene dalla provincia dell’entroterra siciliano, abbandonata e dimenticata, senza strade e speranza. Un luogo nel quale chi vi abita non chiede lavoro (leggi stipendio), ma lavorare per riscattare luoghi bellissimi e dimenticati.
Da tanti anni sento parlare di sviluppo, di entroterra, di strade e viablità, ma alla fine non cambia mai nulla. Otto anni fa scrivevo in un blog locale della situazione delle strade a Contessa Entellina nelle quali si facevano muretti in pietra invece di muri di sostegno, oggi, la situazione rimane disastrosa. Totale assenza degli enti che dovrebbero anche solo fare la manutenzione.
Così, quando piove, le strade diventano i letti dei fiumi trascinando con sé detriti e fango e prima o poi trascineranno via anche le nostre macchine e le nostre famiglie.
Tra la gente ormai si è radicato il pensiero di un destino ineluttabile e i giovani vanno via senza guardarsi indietro.
Lavoro non stipendio
In tutti questi anni che seguo la vita politica locale non ho trovato nessuno che metta al primo posto del proprio programma il termine lavoro nel senso non di dare lavoro ma lavoriamo.
Nessun politico che dopo aver vinto le elezioni entri negli enti pubblici: comuni, forestale, provincia e dica, da domani si lavora per ridare la Sicilia ai siciliani che vogliono ancora restare e investire o che vogliono tornare. Manutenzione delle strade, delle aree archeologiche, delle ville, delle trazzere per raggiungere i fondi, delle spiagge, sistemazione delle strutture, dei sacchetti dell’immondizia buttati sotto ai ponti mentre i sindaci parlano di comuni ricicloni.
Chi ci rappresenta lascia che la Sicilia venga saccheggiata dei suoi prodotti migliori venduti a bassissimo prezzo, dei suoi reperti archeologici trascurati, una politica che permette che i luoghi più belli rimangano isolati e che i siciliani vengano drogati, se sei furbo, da finanziamenti pubblici per la tua azienda che non danno un posto di lavoro a nessuno e che non produrrà mai reddito, da un posto alla regione, un incarico nella pubblica amministrazione. Sei non sei furbo, un posto da 78 giorni annuali alla forestale, un part-time da articolista o peggio ancora da un cantiere di pochi giorni e sei disposto pure a sopportare di essere preso per parassita.
Un pezzo di Sicilia, il mio, senza strade e senza futuro e quasi senza speranza soprattutto se vai al nord e incontri autostrade a quattro corsie o strade provinciali appena asfaltate (qui, è cosa rara).
Una Sicilia che non fa parte dell’Italia e che tutti fanno finta di non vedere e il far finta di non vedere diventa l’idea comune che brucia ogni entusiasmo e ogni progetto buono. Dove chi resiste deve competere con le grandi aziende o peggio ancora con il tunnel buio della burocrazia che, magari, a volte, fa chiudere le aziende e gli allevamenti secolari.
Le parole di carta della Sicilia
Tutto questo ha creato una Sicilia dove le parole sono carta che viene bruciata dal sole per diventare cenere o peggio ancora solo un file tra tanti altri files o un post come tanti altri post.
Una Sicilia che ama essere orgogliosa di se stessa, del proprio passato, ma che non sa vedere la sua miseria, la sua bassezza, che non sa confrontarsi con la realtà e va avanti su di un binario che non ha una meta, che non ha fermate, che viaggia sopra le nostre teste senza scendere per terra e percorrere le nostre strade perché si accorgerebbe che da domani ci sarebbe bisogno di far lavorare qualcuno per sistemarle. Ma come ho detto prima, non il lavoro dello stipendio ma quello vero, il lavoro duro che segna le mani e il viso, che tantissimi saprebbero e vorrebbero fare. Il lavoro che alcuni chiedono, di qualsiasi tipo, pur di restare qui. E invece di ricominciare da queste persone le lasciamo andare via.
Percorrono strade sgangherate per ritrovarle quando uguali se non peggiori.