Il malcontento nei confronti dell’Unione Europea è ormai sotto gli occhi di tutti. Prima della grande crisi del 2006-2008 le popolazioni dei vari stati europei percepivano in modo positivo l’Unione, ma adesso le cose sono cambiate. La causa di questo cambiamento è da rintracciare nella politica economica decisa dalle alte sfere dell’Unione europea, una politica che favorisce gli stati e le regioni europee più industrializzate e non tiene conto delle particolari situazioni e bisogni dei diversi Stati membri dell’Unione.
È possibile un’altra Europa? È possibile un’Europa diversa da quella gestita in modo centralizzato, fondata sui principi del neoliberismo e finalizzata soltanto a scopi economici?
A mio avviso è questa la domanda fondamentale del nostro tempo, perché è una domanda sul destino della nostra civiltà e, dato l’innegabile ruolo giocato dalla cultura, dalla scienza e dalla politica europea nel corso dei secoli, è una domanda sul destino dell’intera umanità.
Nel tentativo di apportare un mio contributo alla questione, prenderò spunto da tre diversi interventi apparsi in questo Blog dalla penna di Alberto Samonà, Massimo Zito e Giovanni Callea, con i cui autori condivido lo scopo di fondo della riflessione: la necessità di riformare l’Europa.
L’articolo di Samonà prende da subito un posizione chiara e radicale e si configura chiaramente come una critica al modello di funzionamento dell’Europa che abbiamo indicato come la causa del malcontento tra le popolazioni europee. Rifacendosi alla teoria dell’”Europa Nazione” del politico catanese Filippo Anfuso e del giornalista Adriano Romualdi, l’autore sostiene che, prima di poter avere un’unione economica, bisogna educare le masse per destare in loro un sentimento nazionale europeo. Da questo punto di vista credo che il Samonà segua un atteggiamento molto in voga in una certa “cultura tradizionalista” europea; l’’Europa viene indicata dall’autore come succube della logica di Yalta, stretta tra due super potenze straniere e imbavagliata nella NATO, da sempre strumento di egemonia imperialista americana. L’unica via di uscita indicata è quella di creare un forte blocco geo-politico fondato sul sentimento nazionale europeo, più vicino alla Russia che agli U.S.A.
La questione sollevata dal Samonà è stata recentemente trattata da De Benoist e Dugin (2014) e meriterebbe di sicuro un ulteriore ed attento approfondimento.
Massimo Zito dal canto suo, pur partendo da posizioni che, nell’odierno panorama europeo, potremmo definire euro critiche, rifiuta il concetto di nazione europea in favore di una federazione europea gestita in modo democratico in cui ogni stato è (oltre che formalmente, di fatto) ad un livello di parità con gli altri. Personalmente sono molto critico e consapevole dei rischi insiti in qualsiasi forma di nazionalismo, pur se portato avanti con le migliori intenzioni. La storia europea passata ci insegna che il nazionalismo sfocia nel colonialismo e nell’imperialismo (come i nazionalismi francese, inglese, italiano, tedesco e russo del diciannovesimo e ventesimo secolo) o comunque nella volontà di dominio sugli stati confinanti e noi europei di oggi abbiamo il dovere di evitare questa possibile deriva. L’aporia evidente tra un diritto alla sovranità, attaccamento alle proprie radici e tradizioni da un lato, ed un rifiuto del concetto di nazionalismo (giacobino e centralista per definizione) credo possa essere risolta chiarendo la distinzione tra nazionalismo e patriottismo.
NAZIONALISMO E PATRIOTTISMO
Una nazione europea, fondata su un forte sentimento nazionalista, potrebbe lasciarsi trascinare proprio da queste tendenze centraliste, per questo motivo preferisco il concetto di “patriottismo” a quello di “nazionalismo”. Per capire la sottile differenza tra i due concetti ci viene in soccorso lo scrittore inglese George Orwell (autore tra gli altri del famoso romanzo “1984” che mette in guardia dai pericoli derivanti dal potere fortemente centralizzato).
Per Orwell il nazionalismo è inscindibile dal desiderio di potere ed è per natura aggressivo ed espansivo, mentre il patriottismo consiste nell’attaccamento emotivo-sentimentale ad un luogo e ad uno stile di vita ed è per natura difensivo, sia militarmente, sia culturalmente.
Un’altra Europa a mio avviso è possibile: un’Europa federale in cui i singoli popoli non rinunciano al sentimento patriottico verso la propria nazione, ma allo stesso tempo si riconoscono in un superiore sentimento patriottico che è quello europeo.
Come sottolinea chiaramente Zito nel suo articolo, richiamandosi a Kant e alla sua opera “Per la pace perpetua”, solo la salvaguardia delle differenze e delle varietà culturali può evitare la comparsa del dispotismo, ma anche tanti micro-nazionalismi possono portare all’ascesa di regimi autoritari, dispotici e con tendenze imperialiste. Per questo motivo il “nazionalismo” deve essere trasformato in “patriottismo” attraverso una graduale educazione delle generazioni dei cittadini dei vari Stati europei. A dare un contenuto a questo sentimento patriottico ci viene in soccorso un’autrice contemporanea di Orwell, ovvero Simone Weil che, riprendendo la critica ai nazionalismi orwelliana, sottolinea l’importanza di istigare un sano sentimento patriottico nei cittadini modellato sui valori cristiani dell’umiltà e della solidarietà reciproca.
SOLUZIONI DI “BUON SENSO”
La questione a mio avviso non è tanto quella del chi sta a sinistra o chi sta a destra nel dibattito politico tra sovranisti ed europeisti, ma tra chi cerca di proporre e attuare soluzioni di buon senso, che tengano conto non soltanto dei fattori economici, e chi invece lo fa in modo arbitrario e avendo a cuore soltanto le ragioni del mercato.
L’opzione federalista, nel senso in cui ne ho parlato sopra, mi sembra quella di “buon senso” ed è la via in cui il destino dell’Europa può decidersi in senso positivo. Faccio un esempio di come potrebbe funzionare un Europa federale e democraticamente gestita prendendo in esame il fenomeno dell’immigrazione, uno dei punti intorno al quale si è focalizzato lo scontro tra sovranisti ed europeisti.
Nel suo interessante contributo Giovanni Callea analizza le due diverse posizioni portate avanti rispettivamente da Bersani e Salvini durante un dibattito verbale in TV. Bersani è a favore della regolarizzazione degli immigrati che già lavorano, Salvini invece è preoccupato dall’effetto che l’immissione di manodopera a basso costo in Italia ha sul reddito medio dei lavoratori italiani. Il Callea, citando Marx, sottolinea come il favorire lo spostamento di masse di lavoratori a basso costo all’interno di paesi ad alto reddito medio, è funzionale al capitalismo, poiché fa diminuire il salario medio drasticamente. In base a questo l’autore definisce provocatoriamente Salvini più marxista di Bersani indicando la causa di tale paradosso nella “morte delle ideologie” che è avvenuta in Europa dopo la fine della seconda guerra mondiale. Il Callea ci tiene a sottolineare come la morte delle ideologie abbia comportato che gruppi crescenti di persone affrontassero il mondo senza una chiave di lettura. Ancora una volta credo che l’analisi che l’autore compie in questo passaggio trapeli in qualche modo, ma non ho lo spazio per discuterne in questa sede, una non chiara distinzione tra ideologia e visione del mondo intesa come weltanshauung. Dal mio punto di vista, la morte delle ideologie non è un male, perché proprio Marx (nel corso della sua riflessione sulla storia della filosofia portata avanti nelle opere “Sacra famiglia”, “Miseria della filosofia” e “L’ideologia tedesca”) definisce l’ideologia come una falsa rappresentazione della realtà, dunque la caratterizza negativamente. L’ideologia per Marx altera la percezione della realtà sociale negli individui e li rende succubi delle classi dominanti. La “morte delle ideologie” ci permette di approcciarci ai problemi al di là del partito politico per il quale militiamo o votiamo. A mio avviso la questione migranti è trattata in modo ideologico anche ai giorni nostri, solo che i blocchi contrapposti non sono più “Destra” e “Sinistra”, ma “Sovranisti” ed “Europeisti”. Ed è proprio questo scontro ideologico a non permettere la discussione del problema in modo democratico e l’attuazione di una soluzione di “buon senso”.
Una federazione europea veramente democratica risolverebbe il problema dell’immigrazione tenendo conto dell’incidenza che l’immissione di manodopera straniera a basso costo ha sul reddito medio dei lavoratori di uno Stato. Gli immigrati dovrebbero essere suddivisi in modo proporzionale tra gli stati membri dell’UE in modo tale da evitare il collasso del reddito medio. Oltre a questo fattore bisognerebbe tener conto soprattutto dello status del mercato del lavoro dei singoli stati europei: un paese come l’Italia, in particolare il meridione e la nostra Sicilia, con una disoccupazione alta non ha possibilità di assorbire la manodopera straniera, se non a discapito degli lavoratori italiani. Oltre alle motivazioni dettate dal buon senso le potenze europee, in particolare la Francia, dovrebbero ricordarsi le enormi responsabilità europee sul sottosviluppo e l’instabilità politica dei paesi africani, che sono a loro volta le cause dell’enorme flusso migratorio degli ultimi decenni.
Un’altra questione su cui si gioca lo scontro tra “sovranisti” ed “europeisti” è la politica economica da attuare nei vari stati europei. Le politiche economiche attualmente sono quelle che favoriscono le aree europee maggiormente industrializzate e con un’economia forte, mentre sono totalmente inadatte per le aree europee meno sviluppate o basate su piccole e medie imprese. L’unica soluzione possibile per uscire dalla crisi politica ed economica è quella che una federazione democratica dovrebbe attuare, e non è una soluzione di destra o di sinistra, ma una soluzione che tiene conto delle differenze che di fatto esistono tra i vari stati e le varie regioni europee. È una soluzione non ideologica, perché proposta a partire dalla realtà di fatto europea e non è un modello deciso a tavolino con la pretesa che sia universalmente valido in tutto il territorio europeo.
L’Europa ha bisogno di federalismo e di un processo decisionale maggiormente democratico. I partiti europei, come la Lega in Italia, appartenenti alla tradizione federalista devono comprendere questo importante ruolo che possono svolgere all’interno della storia europea e mondiale.